DI VITO MARIANO
 

Il seguente racconto è tratto dalla rivista "Voices in Italian Americana" (volume 13, autunno 2002, numero 2), redatto dalla professoressa Millicent Marcus, si parla approfonditamente del ruolo importante avuto da questo nostro compaesano che partendo da Fallo giovanissimo fece, con non pochi sacrifici, una brillante carriera giungendo a diventare direttore di un albergo che contava oltre novecento dipendenti e fondando una cattedra per gli studi d’italiano nell’università della Pennsylvania.

Vista la sua lunghezza, il racconto è stato suddiviso in tre parti. Buona lettura.

DA FALLO A FILADELFIA E RITORNO

Una storica dilettante ricostruisce la vita di un pregevole immigrato italiano

Questa è la storia di due viaggi: uno intrapreso da un ragazzo dodicenne che immigrò a Filadelfia nel 1907 da Fallo, un piccolo paese nella provincia di Chieti in Abruzzo, ed uno compiuto da una professoressa universitaria di mezza età che ha cercato di ricostruire quello stesso viaggio, ma in senso inverso. La motivazione ad intraprendere il secondo viaggio è implicita nei risultati del primo. Mariano Di Vito, un immigrante povero e quasi analfabeta di Fallo, ha fatto carriera a Filadelfia in modo veramente sbalorditivo ed alla sua morte, ormai milionario, ha lasciato la sua fortuna all'università di Pennsylvania fondando una cattedra di Studi Italiani a suo nome. Quale primo impegno come "professorship" di Mariano Di Vito a Pennsylvania, ho ritenuto che fosse mio compito capire e rendere nota la storia della pregevole vita del mio benefattore. Molte persone mi hanno aiutato in questo progetto.
 
Pasquale (Pat) Maiocco, dentista pensionato di Havertown, Pennsylvania e cugino in seconda di Di Vito, insieme a sua moglie Pauline, mi hanno messo a disposizione un vero tesoro formato da documenti, fotografie ed aneddoti. Pat mi ha messo anche in contatto con Guido Di Sciullo, cugino in prima di Di Vito, il quale torna a Fallo ogni estate e che mi ha ospitato in paese e fatto da guida nella regione. Nel giudice Victor Di Nubile, avvocato del Di Vito a Filadelfia e suo caro amico, ho trovato una ricca fonte di conoscenza e di comprensione, come in sua moglie, Mary. Senza questi "informatori" non mi sarebbe mai stato possibile accedere ai fatti, alle immagini ed alle sottostanti correnti culturali che compongono questa straordinaria storia.
 
La mia ricerca, insieme a mio marito Robert Hill cominciò nell'estate del 2000 con un viaggio a Fallo, o piuttosto, a Villa Santa Maria, la cittadina più vicina a tale paese ed abbastanza grande da avere un albergo. Questo viaggio era in primo luogo una "missione per la ricerca dei fatti" ma era anche un pellegrinaggio deciso per adempiere ad un voto di ringraziamento alla classica tradizione della "pietas" (l'atteggiamento di rispettosa sottomissione verso coloro cui si è legati da vincoli di religione, consanguineità, ecc.) Le modalità per raggiungere Fallo rappresentarono da subito un serio problema. Poiché né mio marito né io siamo abili guidatori, scartammo subito l'ipotesi di noleggiare una macchina e ci affidammo alle stravaganze del trasporto pubblico.
Questa fu certamente la scelta migliore perché non solo ci risparmiò la fatica di guidare su strade di montagna piene di curve, ma ci consentì anche di regredire a mezzi di trasporto sempre più antiquati: un modo quindi per tornare alle origini. In questo modo ho ritenuto si potesse chiudere il cerchio aperto novantatre anni fa quando Mariano Di Vito lasciò Fallo per Filadelfia.
 
Una buona preparazione sull'itinerario da seguire mi era venuta da una serie di piacevoli conversazioni avute con Pat e Pauline Maiocco e con una collega abruzzese dell'Università della Georgia, Mia Cocco, i quali si erano trovati in difficoltà nel riprodurre mediante xerografia alcune pagine di una cartina di Fallo e di Chieti, il capoluogo di provincia.
Anche la mia imperturbabile agente di viaggi a Firenze si era quasi arresa alla sfida di condurci a destinazione, ma alla fine riuscì a trovare, anche se in modo piuttosto complesso, la strada giusta commettendo soltanto un errore.
Con questa sua difficoltà ad essere raggiunto, Fallo assunse da subito, per noi, un'atmosfera magica da castello proibito dei racconti delle fate e noi eravamo i principi cui come prima prova di coraggio e fedeltà era stata imposta quella di giungere a tale castello.
 
Un altro elemento che contribuisce all'atmosfera magica del paese è il suo folcloristico, anche se imbarazzante, nome. Guido Di Sciullo attribuisce tale nome al comando dato da un feudatario, Re Caldora, signore di Civitaluparella che aveva la sua residenza nelle regioni montuose sopra Fallo.
Quando gli schiavi locali si lamentarono con lui per i lunghi spostamenti che erano costretti a fare ogni giorno per recarsi nelle terre da coltivare e chiesero l'autorizzazione a stabilirsi nella zona circostante ai loro luoghi di lavoro, il Re Caldora, esaudì questo loro desiderio con la parola "fallo".
Sebbene le etimologie popolari siano indifferenti alla grammatica (la precisione linguistica richiederebbe la forma di comando plurale, fatelo), è emersa un'altra spiegazione più corretta. Secondo la versione di Pat Maiocco, il portavoce per i campagnoli era San Vincenzo Ferreri, la cui istanza per stabilire una comunità più vicina al posto di lavoro fu accolta dal comando del re con la parola "fallo!", nella corretta forma singolare. Questa spiegazione grammaticalmente impeccabile, tuttavia, non è attendibile in quanto sembra che i viaggi del Santo non si sono mai spinti tanto a sud. Meno folcloristico ma intellettualmente indiscutibile è la spiegazione etimologica di Fallo, il cui nome medioevale era Faldus, che voleva dire rocca con riferimento alla sua conformazione geologica.
 
Come in un viaggio a ritroso nel tempo, i nostri mezzi di trasporto regredivano man mano che ci avvicinavamo alla nostra meta.
Partimmo con un modernissimo Eurostar il cui nome riflette l'ambizione dell'Italia di concorrere nei trasporti con il resto dell'Europa equipaggiando i propri treni con tutti i comfort di un aereo. Questo tipo di treno ci portò da Firenze a Roma facendoci godere di un viaggio veramente confortevole.
Nella seconda parte del viaggio, da Roma a Sulmona (luogo di nascita di Ovidio ma città conosciuta anche per i suoi raduni estivi di campeggiatori), il mezzo di trasporto si mantenne di buon livello anche se di qualità leggermente inferiore all'Eurostar. Gli Intercity (questo è il nome del treno) sono equipaggiati con aria condizionata, con tappezzeria di lusso e dotati, anche in questo caso, di ogni comodità.
Da Sulmona in poi il mezzo di trasporto si riduce ad un treno regionale di due soli vagoni cui i continui arresti e le continue partenze hanno valso la paradossale etichetta di "accelerato". In netto contrasto con l'elegante Eurostar, questo treno era diventato quasi una seconda casa per i 167 attivissimi campeggiatori e per i loro otto accompagnatori ormai all'ultimo giorno della loro permanenza quindicinale di visita in Abruzzo.
Per la successiva tappa del nostro viaggio salimmo a Castel di Sangro su un treno con un solo vagone (di proprietà della Ferrovia Elettrica Sangritana) il cui unico segno di modernità era rappresentato dal graffito che abbelliva la sua carrozzeria.
Il conducente dovette chiudere manualmente gli sportelli di tale treno e collegare i suoi terminali con un groviglio di fili elettrici. Iniziammo così i nostri piccoli spostamenti lungo una strettissima linea ferroviaria che mi faceva molto ricordare i treni in miniatura con cui avevo tante volte viaggiato attraverso i parchi e gli zoo dell'America.
Il treno della ferrovia elettrica Sangritana, che copre la tratta Castel di Sangro-Lanciano, fa accorrere al suo passaggio mute di cani che lo inseguono per un breve tratto, forse perché questo rappresenta per essi, l'unico evento interessante della giornata.
 
Il viaggio su questo mezzo quasi primordiale è, a suo modo, molto affascinante in quanto il treno attraversa alcuni paesaggi verdi e lussureggianti, altri brulli e spogli e piccoli paesi posti su vasti altopiani o arroccati su scoscese pendici di montagne.
Ad ogni curva del treno si presentavano ai nostri occhi stupiti nuovi e sorprendenti orizzonti. Ma, quando Villa Santa Maria si è presentata al nostro sguardo, niente di ciò che avevamo visto poteva paragonarsi a quello spettacolo. Sembrava che il paese spuntasse da un'enorme lastra di pietra tagliata dal fianco di una montagna. Era come se il costruttore della città avesse usato questa gigantesca scheggia minerale come muro di sostegno per cominciare ad edificare le case.
La nostra allegria alla vista di Villa Santa Maria fu giustamente ricompensata dal calore con cui fummo accolti nel paese. Disorientati all'arrivo alla stazione e ignari di come si facesse a giungere all'albergo, fummo aiutati dal capotreno che ci prese sotto la sua ala protettiva e ci condusse ad un autobus locale su cui ogni passeggero che saliva era salutato con un coro di "buona sera!".
 

L'autobus, in breve tempo, ci portò all'unico albergo presente nella parte bassa di Villa Santa Maria (ce n'è un altro nella parte alta) dove eravamo attesi dall'addetto alla reception. Quest'ultimo ci disse che il nostro ospite di Fallo, Guido Di Sciullo aveva tempestato l'albergo di telefonate e di visite personali ed era in impaziente attesa del nostro arrivo.

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