E PO', NGRAZIA A DIÈ, ZI MURETTE MÒGLIEME
Un tempo, il senso del sacrificio era certamente molto più sentito di ora forse perché la vita del paese e la mancanza dei moderni mezzi, costringeva la maggior parte delle persone ad accontentarsi di ciò che aveva. Le disgrazie, le carestie, le malattie ed ogni altro tipo d'avversità erano affrontate con rassegnazione, serenità e, a volte, a costo di grandi sacrifici.
Partendo dal presupposto che tutto era stato già scritto e veniva dall'Alto, le disgrazie erano considerate "a sconte di li piccate miè!" (a sconto dei miei peccati!), i momenti migliori erano "a grazie di lu Signore!" (a grazia del Signore!) e, in caso di malattia, le cure del medico erano sempre accompagnate da un "nin pegge Signore!" (non peggio Signore!). Le frasi più usate erano in ogni modo "Chille chi Ddiè vò" (quello che vuole Dio) e "Ngrazie a Ddiè" (grazie a Dio) al punto che erano diventate d'uso comune ed erano usate anche a sproposito. L'aneddoto che segue e che è poi l'origine di quest'Ipse Dixit, ne è un esempio.
 
Un vecchio, ormai in tarda età, raccontando le vicissitudini della sua vita, ebbe a narrare anche della lunga malattia della moglie che da tempo l'aveva preceduto nel mondo dei più.
L'uomo, sicuramente rammaricato dalla scomparsa della consorte, ma forse anche per evidenziare il senso di liberazione della donna che aveva così finito di soffrire, formulò la seguente frase: - E pò, ngrazia a Ddiè, zi murette mòglieme e arimanive sola i! - (E poi, grazie a Dio, morì mia moglie ed io rimasi solo).
 
L'ascoltatore, meravigliato in un primo momento dalla frase, mise qualche attimo a capirne il senso. Poi, anche dopo averla compresa, intenerito dall'innocenza e dalla sincerità che trasparivano dal volto dell'uomo, non ebbe il coraggio di far notare al vecchio come essa potesse dare adito a cattive interpretazioni.
 
GNA' DICETTE CULLE...