OLIO E FARINA
 

Per un bambino di circa otto anni nato in un paese piccolo come il nostro che offriva sempre poche novità e svaghi, non c'era niente di più piacevole che partecipare alla vita "dei grandi" facendo nel contempo qualcosa di completamente nuovo. Pensate che universo sconosciuto si presentava ai suoi occhi nel momento in cui entrava per la prima volta in un frantoio o in un mulino. E, fino alla metà degli anni sessanta, a Fallo esistevano entrambe le cose.

Il primo si trovava lungo Via Santa Maria e funzionava ancora a trazione animale. Quando ci andai, accompagnato da mio padre, ne rimasi affascinato.
La settimana prima, nonostante il freddo intenso, avevamo raccolto le olive e c'eravamo prenotati per tempo alla loro spremitura. Il locale con il frantoio, era un'ampia stanza al centro della quale era montata una macina. Un somaro era legato ad una robusta sbarra di legno che sporgeva dalla mola e, girando in tondo, la muoveva schiacciando così le olive. Queste ultime erano gettate direttamente dai loro contenitori sotto la macina e l'olio, come mi fece notare più tardi il signore unto e bisunto che armeggiava intorno al frantoio, era raccolto in una specie di grosso catino pieno d'acqua in cui il risultato della spremitura galleggiava e veniva di volta in volta raccolto e travasato in appositi contenitori.
Nonostante il freddo intenso, all'interno del frantoio si stava bene. L'olio appena spremuto e la bestia da soma, impregnavano l'aria del locale di un odore acre ma non sgradevole. L'addetto al frantoio, nell'attesa che le nostre olive fossero trattate, si dilungò molto nella spiegazione di tutta la lavorazione dell'olio mostrandomi alla fine, con orgoglio, una bottiglia del risultato della spremitura di un intenso colore verde.

Quel colore così cupo unito al profumo particolarissimo del luogo mi restò per molto tempo nelle narici anche durante l'inverno, quando quello stesso olio, gelato dal gran freddo, era quasi spalmato sul pane lasciato abbrustolire sulla stufa a legna.

Il mulino si trovava invece lungo la strada mulattiera (ora asfaltata) che portava e che conduce tuttora in località "Cancello". Era un locale rumoroso e, al suo interno, in alcuni momenti era impossibile distinguere gli oggetti a causa della farina sollevata dalla macina. Dopo la mietitura e la raccolta del grano, la trasformazione di quest'ultimo in farina credo che rappresentasse senz'altro un vero diversivo nella vita dei bambini di Fallo.
Ricordo che il mugnaio ci accolse molto cordialmente e, com'era già successo quando eravamo andati al frantoio, mi spiegò tutto il funzionamento del mulino.
Ciò che più mi affascinò era l'alta scala che conduceva accanto ad una specie di grosso imbuto in cui il grano era gettato per essere macinato.
Restai per molto tempo incantato a guardare il grano che veniva lentamente risucchiato nel foro centrale. Ogni tanto mi divertivo a formare dei piccoli mucchi di grano sul bordo dell'imbuto per vederli poi lentamente crollare.
Purtroppo il divertimento durò poco perché, solitamente, quando ci si reca al mulino, non si attende mai che sia il proprio grano ad essere macinato, ma, pesatolo, se ne ha indietro il corrispettivo in farina, diminuito della quantità andata persa con la crusca e la percentuale dovuta al mugnaio. Questo era almeno l'uso di allora, secondo quanto mi spiegò mio padre accanto all'enorme bilancia mentre ci accingevamo a pesare il nostro grano in mezzo a nuvole di farina ed al rumore assordante della macina.
Provai molto dispiacere quando il mugnaio, completamente bianco di farina da sembrare un fantasma, dopo averci aiutato a caricare il somaro preso in prestito per l'occasione, ci congedò davanti all'ingresso della bottega: forse già sapevo che non ci sarei più tornato. Giunto a casa, non solo mi accorsi che anche io ero coperto di farina ma avvertii pure che nelle narici mi era rimasto il profumo del grano appena macinato, profumo che, oggi come allora, mi sembra talvolta di risentire.
 
LO SPAZIO DI TUTTI